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lascaux

Le più antiche immagini: il Paleolitico. Le immagini che gli studiosi hanno scoperto nella profondità delle caverne dell’area franco-cantabrica avevano un’importanza vitale per gli uomini del Paleolitico Superiore (da 35.000 anni fa fino a 10.000). Non a caso entrare in queste caverne comportava seri pericoli. Alle tre lunghe gallerie della grotta di Trois Frères, ad esempio, si poteva accedere solo strisciando sul ventre senza mai levare il capo per quaranta metri, attraverso un angusto passaggio . Per vedere i dipinti di altre caverne era necessario attraversare fiumi sotterranei,  superare crepacci e affrontare molti insidiosi ostacoli. In queste cavità che sprofondavano nella terra sono state rinvenute immagini policrome di grandissima bellezza, il cui non facile avvicinamento da parte di un qualsiasi “visitatore” umano la dice lunga sulle finalità delle pitture, non certo riconducibili al puro desiderio di fruire di un prodotto artistico. Perchè dunque realizzare immagini in luoghi irraggiungibili, immersi nel buio più profondo? E poi, quale senso poteva avere l’atto di riprodurre, nel ventre della terra, nei colori e nelle forme naturali, l’immagine di alcune specie animali? Certo, non quello artistico, dato che la fruizione di quelle immagini era probabilmente consentita in ogni momento ad una ristretta cerchia di iniziati e solo in alcune ricorrenze all’intera comunità riunita. Perchè dunque produrre immagini in quelle condizioni?  Certo, si tratta di domande a cui non possiamo trovare una risposta adeguata. Lo scienziato Carlo Rubbia diceva che la risposta giusta non la sapremo mai e proprio qui, in questo mistero, sta tutto il suo fascino, perchè poi le risposte degli uomini saranno tante. A. Leroy Gourhan, che con E. Anati è stato uno dei più importanti studiosi di etnologia preistorica del ‘900, afferma che “L’uomo preistorico non ci ha lasciato che messaggi frammentari. Può darsi che, al culmine di un lungo rituale, abbia deposto al suolo una pietra qualunque e su questa abbia fatto l’offerta di un fegato di bisonte arrostito sopra un piatto di corteccia dipinta con l’ocra. I gesti, le parole, il fegato, il piatto, sono scomparsi; quanto alla pietra, solo un miracolo ci permetterebbe di distinguerla dalle altre sparse tutto intorno”.

Ebbene, anch’io ho qualche risposta, anche se so bene che le nostre ipotesi riguardo al pensiero dell’uomo preistorico possono essere ragionevoli, e per questo anche accettate, ma non sono dimostrabili.

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Teyat, Abri Mèje, periodo  maddaleniano (18.000-11.000 a.C.). Quelli che per Breuil sono antropomorfi mascherati, per R. Schmidt sono giovinetti mascherati da camoscio che danzano; per S. Reinach sono spiriti fecondatori. Gli elementi di analisi disponibili sono: il mascheramento animale e la postura degli arti inferiori che trasmette l’idea di un salto a piè pari.

In una concezione magica, il fatto di “fissare” periodicamente nel ventre della  “Madre Terra” l’immagine di quegli animali che erano la principale fonte della sopravvivenza dell’uomo, nella concezione arcaica equivaleva al suo ingravidamento. La mia ipotesi è che  le immagini fossero deposte nel ventre della terra  per creare le condizioni della rinascita e ricomparsa stagionale degli animali da cacciare.
All’interno di questa ricostruzione ipotetica,  che, se vera, fornirebbe un modello di interpretazione dell’intera arte paleolitica, la figura umana gioca un ruolo assolutamente marginale. Infatti sono rari i casi in cui l’antropomorfo viene rappresentato in termini naturalistici, e quando è presente lo è solo in forma ibrida e con maschera animale. Sembra che per tutto il Paleolitico la rappresentazione dell’essere umano sia stata avvuna sorta di tabù.

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Azione mimica nel corso della quale un gruppo di iniziati colpisce ritualmente con le lance l‟immagine di un canguro disegnata nella sabbia (da Hutchison, 1915). E‟ una fase del rituale iniziatico della cerimonia “Bora“ degli aborigeni dell‟Australia Orientale, istituita allo scopo di iniziare i fanciulli ai segreti della società maschile. In queste cerimonie vengono raccontati in forma di pantomima i miti sacri della tribù, come insegnamento ai giovani delle credenze tradizionali. Gli archeologi hanno spesso utilizzato i materiali relativi ai popoli primitivi per dare un’identità culturale ai documenti archeologici portati alla luce. Dall’applicazione acritica di questi dati è emerso un quadro in cui le civiltà preistoriche di volta in volta incorporavano ora i rituali propiziatori della caccia dei popoli artici; ora il culto delle ossa dei tasmaniani o degli indios amazzonici; ora un culto totemico degli aborigeni australiani. Tale modo di operare, che spesso ha generato confusione e imprecisione, si spiega nell’idea in parte veritiera che le civiltà preistoriche mostravano “con chiarezza” gli stessi tratti dei popoli “primitivi contemporanei.

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Caverna di Montespan, Paleolitico Superiore (da Breuil). La forma di un orso, bucherellata a colpi di giavellotto, accanto alla quale al momento del ritrovamento era ancora presente  il cranio. Nello strato di creta che circonda l’immagine si sono conservate impronte di piedi nudi e anche di zampe ed artigli dell’orso delle caverne. Le impronte sono disposte in fila attorno all’immagine, ed in alcuni punti è impresso nella creta il tallone puntato invece che l’intera pianta del piede. E’ probabile che intorno alla scultura si sia verificato un rituale simile a quello compiuto dagli aborigeni.

 

 

 

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