La prevalenza della figura maschile (in particolare del guerriero) è uno degli effetti ancora oggi presenti dell’influsso indoeuropeo sulla cultura occidentale.
Tale influsso è documentato in primo luogo dalla compresenza di importanti elementi culturali in molte lingue europee, prima fra tutti la lingua nei suoi aspetti non solo lessicali, ma anche morfologici e grammaticali. A questa lingua comune corrispondeva una nuova cosmologia ed una organizzazione sociale di tipo patriarcale caratterizzata da una suddivisione in classi. Questo modello antropologico trova formulazione nei più antichi miti occidentali e nel repertorio iconografico, nel quale l’immagine dell’antropomorfo di sesso maschile assume, come si è detto, una funzione paradigmatica. Gli effetti di questa nuova organizzazione sociale si fanno sentire anche nella danza, se un frammento della Titanomachia, poema del periodo preomerico recita che “al centro danzava il padre degli uomini e degli dei”.
Prima di quel momento – ammesso, io non credo, che si possa dividere la storia in segmenti che si interrompono completamente – esisteva in Europa, cioè aveva una diffusione universale, un diverso modello di società che, per le sue peculiarità, metteva al centro la donna e lo specifico femminile. I più antichi documenti iconografici della nostra cultura ci lasciano intendere che, prima dell’influsso indoeuropeo, al centro della danza collettiva non ci fosse il padre ma la madre. E’ la cosiddetta “Grande Madre”, o “Grande Dea”, come la chiama Marija Gimbutas, la “Dispensatrice di vita” che si manifesta nel ciclo naturale sotto multeplici aspetti. E’ lei che guida il ritmo della danza e insegna i passi “giusti” per porre ogni evento, umano e naturale, in sintonia con il Tutto. Al centro del primo girotondo c’è una donna, incarnazione della Dea sulla terra. In lei il mistero della vita si perpetua secondo ritmi che si inscrivono in quelli del Cosmo, primo fra tutti il ciclo lunare.
Il vaso della cultura di Lengyel (V millennio a.C.) bene illustra questa visione del mondo che caratterizza l’iconografia delle culture neolitiche, forse le prime a fare una conta sistematica del tempo, istituendo una disciplina a cui per millenni sono state affidate molte speranze di sopravvivenza dopo la morte.
E’ stato Mircea Eliade a spiegarci che la religione delle civiltà agrarie è incentrata sulla drammatica esperienza della morte e sul miracolo della rinascita della materia vivente, di cui il ciclo del sole e la luna da sempre rappresentano il più elevato simbolo cosmologico. Grazie alla perpetua e ciclica rinascita della luna, epifania dello specifico femminile, era sotto gli occhi di tutti che la morte non è un’estinzione, ma è una fase di transizione attraverso i cicli della vita.
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