Sulla roccia nr. 50 di Naquane (Capodiponte, Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri, rilievo CCSP) due guerrieri armati di spada corta e piccolo scudo, adornati con gonnellino rituale ed elmo frangiato, danzano intorno (o combattono di fronte) ad un altro guerriero che tiene le braccia sollevate ed impugna una lunga spada da battaglia e uno scudo rotondo in atteggiamento di tripudio. Nell’arte rupestre dell’Età del Ferro (VII- IV/III sec. a.C.) sono migliaia le coppie di guerrieri che si affrontano in duello, ma solo in un numero limitato di casi tra i due guerrieri, o nei loro pressi, è rappresentato un ulteriore elemento (antropomorfo, uccello acquatico, coppella o altro) che, come abbiamo già visto, indica in termini figurativi la relazione cosmologica esistente tra l’immagine e il supporto che la ospita. Il comportamento ritmato e incruento dei guerrieri conferma che non è in corso uno scontro bellico, tant’è che nell’intero repertorio camuno solo un numero davvero esiguo di guerrieri risulta raggiunto da colpi di spada. La scena della roccia 50 offre spunti di riflessione di notevole interesse. In primo luogo troviamo qui la conferma di una regola generale: in ogni fase dell’Età del Ferro (VII-III sec. a. C.) i guerrieri che si fronteggiano sono senza eccezione ritratti di profilo. Al contrario, il personaggio centrale risulta sollevato (come sospeso in aria) rispetto al piano di appoggio dei danzatori e ogni dettaglio corporeo (la testa, le braccia, il busto, gli arti inferiori) esprime una visione frontale, fatto che inserisce questa figura in una diversa categoria di esseri, quella super umana. Seguendo un’intuizione del grande Silvio Ferri (Ferri 1972), alcuni anni fa ho presentato un’ipotesi (G. Ragazzi, 1994), secondo la quale il guerriero al centro della scena è l’eroe ucciso in battaglia che assiste ai rituali in suo onore. Siamo di fronte a quella che Berard chiama scena di “Anodos“, la risalita dal mondo inferiore attraverso un “passaggio ctonio” (C. Bérard, Anodoi. Essai sur l’imagerie des passages chthoniens, 1974) che mette in collegamento il “sotto” e il “sopra”.

Naquane, Capodiponte. Antropomorfo con il busto tronco e le braccia rivolte verso il basso. Applicando al repertorio camuno l’ipotesi di Claude Berard, l’antropomorfo mancante della parte inferiore è uno spirito della terra colto in un attimo del suo movimento verticale di risalita sulla terra (anodos) o di discesa nel mondo infero (cathodos) .
Nella Preistoria la roccia rappresenta uno dei più diffusi “passaggi ctonii” e le incisioni rupestri costituiscono il corpus formalizzato del relativo sapere cosmologico. Nel caso della roccia 50 il guerriero non solo ha completato il passaggio, ma volteggia nell’aria. Altri casi mostrano invece come l’attimo in cui avviene il passaggio è di poco anticipato e il confine tra il sopra e il sotto non è stato ancora varcato per intero. E’ il caso dei molti antropomorfi incompleti che sono ancora oggi denominati busti di antropomorfo.

Dos del Mirichì, Valcamonica, media-tarda Età del Ferro (da Anati). Due guerrieri si affrontano in un duello rituale, non cruento. Sono infatti armati di spade corte e piccoli scudi (peltès) che, come per i sacerdoti Salii, venivano probabilmente cozzati l’uno contro l’altro per produrre suoni o rumori. Tra i due guerrieri è inserito un piccolo antropomorfo con le braccia piegate ad angolo retto e rivolte verso il basso nel gesto dell’Uomo Ctonio, luogo in cui si depongono i semi e i morti.
Importanti studi iconografici (in particolare Vernant, La morte negli occhi, 1985) hanno rimarcato come anche nell’immaginario della Grecia antica esprimere la frontalità significa porre l’umano faccia a faccia con una entità di natura divina – si pensi allo sguardo mortale della Medusa – e rendere tangibile “l’alterità radicale della morte”. In questo senso “la frontalità esprime in modo sorprendente questa posizione di trapasso e forse anche l’ambivalenza tragica della morte gloriosa che sottrae il combattente all’umanità” (Frontisi-Ducroux in La città delle immagini, 1986, 137). In base a queste premesse il guerriero rappresentato in posizione frontale è l’eroe ucciso in battaglia, eternato nell’istante in cui, dopo essere risalito dal mondo dei morti, assiste ai giochi funebri organizzati in suo onore.
Se le scene di danza armata incise sulle rocce camune sono espressione del profondo legame con la terra, ciò non dipende però solo dal contesto del rituale funebre, come documentato dalle immagini incise sulla roccia 50 di Naquane. Altre scene camune mostrano infatti come nell’iconografia protostorica la terra non sia considerata esclusivamente come il luogo dove si depongono i morti, ma anche quello in cui si inseriscono i semi. Su una roccia di Seradina (Capodiponte) alla scena di aratura compiuta dall’aratro e completata dagli zappatori, partecipano due antropomorfi resi frontalmente: un guerriero armato di lancia e di scudo in posa “di guardia” ed un antropomorfo nella posa dell’Uomo Ctonio con le braccia piegate ad angolo retto che rivolge una preghiera alla terra. Poiché entrambi sono posti frontalmente, dobbiamo concludere che la loro funzione all’interno della scena sia interamente “metafisica”, volta a proteggere le conseguenze dell’atto in corso sia militarmente (funzione guerriera) che attraverso la preghiera (funzione sacerdotale).

Seradina, (Capodiponte) scena di aratura di , in cui l’aratro trainato da cavalli e seguito da un gruppo di zappatori, è integrata da due azioni simboliche: quella del guerriero che esercita la sua funzione di difensore della terra da possibili incursioni di spiriti (molto vicina alla danza romana dei sacerdoti Salii) e quella dell’antropomorfo nella posa dell’Uomo Ctonio che con il suo gesto invita gli spiriti della terra a essere favorevoli al futuro raccolto.
Anche la danza armata dei Cureti, descritta nel mito cretese della nascita di Zeus, esprime un legame con la terra molto simile a quello degli antichi camuni. Il mito narra infatti che dopo la nascita di Giove i Cureti, spiriti guerrieri al servizio di Era moglie di Crono, inscenarono una danza armata, nel corso della quale il battito degli scudi risultò determinante per coprire il pianto di Giove e salvare il neonato dalla furia omicida del padre. Ciò che colpisce di questo mito è la sorprendente analogia con il racconto trasmesso dalla tradizione popolare, secondo il quale il neonato figlio di Rea e di Crono, i cui vagiti vengono coperti dal rumore prodotto dagli scudi, incarna lo spirito della vegetazione nel suo stadio di germoglio che deve essere protetto dall’inclemenza degli eventi naturali.

Danza armata dei Cureti, (terracotta campana rinvenuta a Cerveteri, II-I sec. a.C., British Museum, Londra).
Poichè anche nelle scene camune lo scudo si contrappone quasi sempre ad un altro scudo, il loro battito ed il conseguente rumore potrebbe aver avuto la medesima funzione di spaventare e tenere gli spiriti lontani dal campo, in modo da rimuovere ogni impedimento alla crescita della vegetazione ed alla maturazione dei frutti. In questo senso la danza armata dei Cureti mostra una singolare analogia con la danza dei Salii (dal latino salire, cioè saltare), sacerdoti di un’antichissima congregazione romana, i quali nel mese di marzo sfilavano danzando e portavano in processione i dodici scudi sacri (gli ancilia) intonando il loro canto (carmen) accompagnati dal solo battito ritmico degli scudi. Nell’originario significato agrario del rituale saliare, l’invocazione a Marte, presente anche nel canto a sfondo agrario dei Fratelli Arvali, è intesa come richiesta al Dio della guerra di un’azione specifica in difesa dei campi e delle messi dagli spiriti della terra nei momenti in cui era sufficiente un evento negativo per pregiudicare l’intera stagione agricola.
0 commenti