Nella prima metà del secolo scorso i filosofi neopositivisti introdussero stabilmente nella cultura occidentale l’idea che l’unica dottrina dotata di valore universale, cioè la Scienza, fosse fondata sull’esperienza empirica e che tutto ciò che stava al di fuori di essa era un’impressione, un dato non verificabile, non conoscibile, metafisico. Secondo questa prospettiva neopositivista ed empirista, cioè scientifica, un enunciato è verificabile solo quando è disponibile un certo numero di osservazioni ricavate dall’esperienza che attestano alcune condizioni di verità (induzione). Con l’applicazione dei criteri delle Scienze empiriche all’archeologia, per alcuni decenni si è assistito al tentativo di estendere il metodo di indagine quantitativa e statistica anche allo studio delle immagini preistoriche che sempre in maggior numero venivano scoperte in ogni parte del mondo. Il tentativo era in parte giustificato dall’impressione, al tempo molto sentita e in alcuni casi veritiera, che una parte delle argomentazioni prodotte per dimostrare il significato delle incisioni o pitture preistoriche appoggiasse su dati soggettivi o su ricostruzioni teoriche la cui debolezza era spesso da attribuire al non sempre corretto impiego del metodo comparativo. Con il passare del tempo gli studiosi di Iconografia Preistorica sono diventati sempre più consapevoli del fatto che ogni interpretazione necessita di una accurata documentazione in grado di giustificarla, in mancanza della quale l’unica scelta possibile è quella di limitarsi a fornire un corpus di dati più completo possibile, rinviando l’attribuzione di un significato a tempi migliori.
Il mio riavvicinamento alla filosofia è avvenuto alcuni anni fa, mentre ero coinvolto in una incredibile ricerca iconografica che si proponeva di scoprire il significato di un antico gioco per bambini, il “Gioco del Mondo” (inglese: Hopscotch game; francese: Marelle; spagnolo: Rayuela). Le regole del gioco, ma ancor di più la geometria del tracciato sul quale ancora oggi si gioca, a mio modo di vedere costituivano (e costituiscono ancora oggi) un formidabile punto di accesso alla comprensione della Cosmologia preistorica, ineliminabile premessa allo studio delle origini della danza. Ho presentato la relazione sulla struttura cosmologica del Gioco del Mondo al XII° Seminario di Archeoastronomia (Genova, aprile 2010) riscuotendo grande interesse e un ampio accordo intersoggettivo. Quando poi, alcuni mesi più tardi, ho inviato il testo della mia conferenza (G. Ragazzi, “Il Gioco del mondo e il Cosmo degli antichi”, 2010) ad alcuni studiosi di Arte Preistorica, il cammino della mia ricerca si è subito rivelato molto più difficile, al punto da indurmi a riprendere in mano i libri di filosofia al fine di scoprire quale tipo di conformità esisteva tra la mia ipotesi interpretativa ed i criteri logici dell’Epistemologia e dell’Ermeneutica.
Nel corso dei due successivi anni di studio ho avuto modo di cambiare radicalmente la mia prospettiva teorica. Se prima ero convinto che le ipotesi formulate dagli studiosi di Iconografia Preistorica erano soltanto un “gioco nell’ambito del non verificabile”, come sosteneva W. Burkert (Homo necans, 1981,36), il recupero di una competenza “logica” aveva introdotto nel mio modello di ricerca importanti novità; mi metteva a disposizione alcuni strumenti logici con i quali era concretamente possibile pervenire alle certezze lungamente inseguite, mettendomi in condizione di formulare le mie ipotesi con un linguaggio appropriato (G. Ragazzi, Epistemologia e Iconografia Preistorica, 2014).
Nel corso di questa “seconda navigazione” è parso evidente che, in netta opposizione alla severa critica ricevuta, discipline come l’Iconografia Preistorica e l’Archeologia non possono sottostare ai criteri quantitativi delle scienze naturali, esattamente come le leggi della natura non sono in grado di spiegare la complessità dei fatti umani, soprattutto quelli simbolici. Su questo tema un determinante contributo di conoscenza mi è giunto dalla lettura di Il concetto della storia, di R.G. Collingwood (1966), che ha illuminato potentemente il mio percorso cognitivo.
Per Collingwood la relazione che nel mondo fisico intercorre tra una causa e il suo effetto è cosa ben diversa rispetto a quella che la logica umana instaura tra una ragione (o intenzione) e il comportamento che ne consegue. Nel suo agire l’uomo non segue leggi naturali, non è mosso da cause, ma da regole, e ogni regola ha valore solo in quanto è inscritta all’interno di un rigido codice di comportamento, confermato e custodito da una determinata comunità storica. E’ vero che la moderna ricerca storica – continua Collingwood – è cresciuta all’ombra del suo fratello maggiore, il metodo della scienza naturale. Nonostante ciò, i due modelli cognitivi, quello delle scienze umane e delle scienze naturali, conservano la loro distanza e la loro autonomia. A conferma di ciò basti ricordare il fallito tentativo compiuto dal filosofo della Scienza C. G. Hempel di adattare il modello di spiegazione causale (modello Nomologico-Deduttivo) agli enunciati delle discipline umanistiche i quali, per il loro particolare contenuto, non sono sottoponibili ai criteri delle scienze naturali.
Collingwood è giunto così alla conclusione che, proprio in virtù di questo particolare contenuto, l’oggetto della moderna ricerca etno-demo-antropologica sfugge ai criteri delle Scienze Naturali. L’esperienza ci insegna che le azioni umane accadono in un modo diverso: i motivi, le inclinazioni, i desideri, le intenzioni che stanno alla base del comportamento dell’uomo non sembrano far dipendere il loro nesso causale da una legge di natura. L’uomo, inteso come oggetto di studio, è qualitativamente diverso dagli oggetti delle scienze fisiche. L’uomo osserva e interpreta regole di comportamento, mentre gli oggetti delle scienze fisiche seguono meccanismi di cui non hanno consapevolezza. Mentre gli eventi studiati dalle scienze naturali devono essere valutati esclusivamente in base alla loro apparente conformazione esterna, e solo a quella, gli eventi umani possiedono una conformazione esterna, i corpi e i movimenti, ed una interna, che deve essere descritta non in termini di cause, ma di ragioni. Per Collingwood la relazione tra ragione (o intenzione) e azione è diversa da quella che nel mondo fisico collega un effetto alla sua causa. Le leggi della natura non sono in grado di spiegare adeguatamente il comportamento umano. Più che le leggi naturali, l’uomo segue regole, e la regola fa riferimento ad una norma culturale istituita da una comunità. Le regole conferiscono significato al comportamento, ma non lo causano; le leggi che regolano gli accadimenti umani non sono leggi della natura ma della cultura.
Per coloro che si dedicano allo studio dei simboli arcaici, come quelli che i bambini disegnano per terra prima di giocare al Gioco del Mondo (e che spesso incontrano l’indifferenza e la critica del mondo accademico) l’antropologo Clifford J. Geertz offre un stimolo davvero speciale: “L’uomo – dice Geertz – è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessute. La cultura consiste in queste ragnatele, pertanto la loro analisi non è anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato” (C. Geertz, Interpretazione di culture, 1973). Per Geertz la missione dell’Archeologo del Sapere – epiteto che ben incarna la figura dello studioso di Iconografia Preistorica – va assolta nella consapevolezza che il corpus di dati che l’osservazione rende disponibile è solo il punto di partenza della ricerca, non certo quello di arrivo.
In base all’insegnamento dei grandi pensatori che ci hanno preceduto, la Cosmologia preistorica, intesa come elemento fondamentale per la comprensione della danza delle origini, è l’oggetto di una “scienza interpretativa in cerca di significato”, non certo di una “scienza sperimentale in cerca di leggi”.
Attraverso l’analisi degli elementi figurativi che compongono un’immagine, l’Archeologo del Sapere è in grado di risalire all’uomo che l’ha creata e da questo alla società in cui viveva. Ma se chiunque può recuperare un’immagine preistorica incisa o dipinta su una superficie di pietra, solo colui che osserva e interpreta correttamente può restituire il valore del passato.
Difficile commentare e difficile darti torto. Eppure siamo molto lontani dalle affermazioni apodittiche. Questa ricerca del metodo è in se stessa la garanzia della veridicità dei risultati (effimeri e provvisori quanto pur siano): la sistematizzazione arriverà a posteriori; la formula elegante e predittiva, scolpita nella roccia, si scolpirà da sé. Sono lastre di un ponte che si materializzano via via che si osa il passo sopra l’abisso. È da vertigine questo passaggio, ma osarlo è (fideisticamente) già averlo compiuto ed essere arrivati al punto di approdo. Lo sventolar delle bandiere è pur sempre segno della propria presenza; del dare a chiunque la possibilità di vedere i cerchi allargarsi, dopo aver gettato il sasso nello stagno. I sistemi troppo rigidi (come quelli sicentisti) smascherano l’intimo sospetto di inadeguatezza e il seguirli pedissequamente è indice di speculare insicurezza. Fai bene a lanciarti nel vuoto, le tue intuizioni emotive (!) ti sorreggono, ti guidano: una volta al di là, volgendoti indietro, tutto sarà evidente e lampante (non solo a te), ovvio quanto qualcosa che non ha più bisogno di alcuna dimostrazione, né di un “consensum omnium”.