Le premesse della tradizione coreutica dell’Europa antica e medievale sono da ricercarsi in due repertori figurativi sviluppatisi tra la fine dell’Età del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro, più precisamente:
A – Il repertorio figurativo delle incisioni rupestri della Valcamonica, delle stele decorate del sud di Spagna e Francia, delle Stele Felsinee, Lunigianesi e Daunie, manifestazioni attardate del megalitismo europeo. Chiunque, familiare o amico, si fosse avvicinato alla superficie delle rocce incise o all’area sacra in cui le stele erano infisse, avrebbe potuto interagine con esse nelle modalità previste dal rituale (canto, gestualità, danza, preghiera, sacrificio).
B – Il repertorio figurativo della ceramica decorata rinvenuta nelle necropoli ad incinerazione del Midi della Francia (i cosiddetti Campi di Urne Tardivi: Moras-en-Valloire, Vendres, Camp Allaric, Vidauque, Cailhac, Vaucluse, Villeplaine, Villement, Las Fados, Queroy, Rancogne, ecc.), quella protoetrusca (Cuma, Sala Consilina, Pontecagnano, Montalto di Castro, Campo Reatino, Marsiliana d’Albegna) e alpina (Bourget, Sesto Calende). Il fatto che vasi e piatti decorati siano stati deposti sotto terra insieme alle ceneri del defunto, ci induce a credere che nessun vivente, terminato il rituale funebre, avrebbe potuto accedere a tali immagini, la cui fruizione diventava pertanto prerogativa esclusiva dell’anima del defunto. Dunque la danza rappresentata sul supporto sacro, avrebbe continuato a danzare solo alla presenza del defunto, allietandolo fino alla notte dei tempi.
Nel rituale funebre l’oggetto in ceramica assolveva ad una duplice funzione: il vaso era il contenitore dei resti del defunto raccolti dopo la sua incinerazione; altri vasi e piatti facevano parte del corredo con il quale il defunto avrebbe affrontato la vita dopo la morte. Sulle pareti dei vasi è rappresentato un ampio repertorio di gesti formalizzati: l’adorante (Uomo Cosmico), l’antropomorfo con le braccia a croce (Uomo Universale) o rivolte verso la terra (Uomo Ctonio). Queste espressioni gestuali che sono collocate all’interno di metope in associazione con elementi geometrici e simboli, fanno parte delle strisce che decorano la pancia del vaso o l’interno del piatto. La recente ricerca condotta sul Gioco del Mondo (Ragazzi, 2015), nella quale ho analizzato il tracciato sul quale i bambini eseguono i salti da un riquadro all’altro, ha ben evidenziato come nell’iconografia arcaica questi elementi geometrici esprimono la struttura, la posizione e talvolta persino il movimento del cielo rispetto all’osservatore. Dunque, nella dinamica della rappresentazione, alle figure geometriche è attribuita una importante funzione cosmologica.
In questa fase di transizione tra Età del Bronzo e l’Età del Ferro, non essendo ancora aperte le rotte commerciali che collegavano le coste orientali del Mediterraneo al sud dell’Europa, gli influssi culturali avvenivano al seguito dei traffici che si svolgevano lungo le vie di terra. Negli scavi archeologici condotti nel villaggio lacustre di Bourget (Savoia, IX-VII sec. a. C.), ad esempio, sono venuti alla luce oggetti di produzione lombarda ed emiliana, artefatti metallici come pendenti a doppia spirale, fibule ad arco serpeggiante, matrici in terracotta utilizzate per imprimere nella ceramica la forma della svastica o dei cerchi concentrici (Bocquet, 1984). La ceramica di cui stiamo parlando era frutto di una produzione autoctona i cui modelli provenivano spesso da regioni con le quali esistevano stabili contatti. L’uniformità culturale che si percepisce confrontando i documenti figurativi di molte aree dell’Europa mediterranea, è evidente nei modelli coreutici e gestuali presenti sulla ceramica. Possiamo riscontrare tale affinità formale confrontando la danza del piatto di Moras-en-Valloir (IX sec. a.C.) con quella incisa sul masso camuno Ossimo 12 (metà III millennio a.C.).
Il piatto di Moras è un interessante compendio dei temi figurativi in vigore sulle sponde europee del mediterraneo: l’adorante, la svastica, l’uccello acquatico, l’acqua, la terra arata, la croce ortogonale e diagonale, il punto o la coppella, ecc. Uno dei cinque registri presenti sul piatto è interamente occupato da una grande danza circolare che costituisce l’elemento centrale dell’intera rappresentazione. Uno studio più approfondito del simbolismo e dell’organizzazione linguistica di questo e degli altri documenti che costituiscono il corpus figurativo della ceramica di transizione tra l’Età del Bronzo e l’Età del Ferro, ci permetterebbe di formulare ipotesi più verosimili sul significato, non solo dei gesti e delle danze, ma dell’intero pensiero religioso dell’uomo protostorico.
Per la comunità arcaica la liturgia veniva eseguita nel corso di cerimonie funebri e di fertilità finalizzate alla restituzione al Cosmo dell’energia che l’alternarsi delle stagioni aveva esaurito, in modo da far ripartire il ciclo naturale. Secondo questa credenza, che fino ad alcuni decenni fa era ancora viva nella tradizione popolare, lo stesso meccanismo magico di rinnovamento del Cosmo che faceva crescere le piante avrebbe garantito al defunto una vita perpetua nell’Aldilà. Per l’uomo contemporaneo è logico pensare che una liturgia compiuta nel corso della vita quotidiana – per esempio il segno della croce fatto con una mano – debba essere più efficace dell’immagine che riproduce quello stesso atto. Nella credenza arcaica non è così. Quando un pensiero, un oggetto o un’azione a cui la collettività attribuiva una particolare rilevanza venivano trasformati in immagine, ciò accadeva all’interno di un contesto sacrale assoluto – la roccia, la grotta, la tomba e i relativi contesti – che la tradizione primordiale considerava un punto di comunicazione tra i mondi (axis mundi). Infatti l’uomo arcaico concepiva l’universo come formato da regioni sovrapposte che comunicano lungo assi verticali, punti di emanazione dell’energia attorno ai quali si organizzava il culto. Proprio in questi punti di confine tra il mondo degli umani e il sovrumano, quello che sta sopra e quello che sta sotto, avvenivano periodicamente degli sconfinamenti di spiriti o esseri soprannaturali, talvolta anche con una drammaticità che l’approccio razionale moderno non consente di cogliere per intero. Dunque, nel supporto non valgono le leggi naturali dello spazio e del tempo. In questa dimensione originaria, ciò che è, è per sempre.
Un esempio su tutti ci permette di cogliere il senso della sacralità di cui il supporto è portatore: le sovrapposizioni che ricorrono nelle incisioni rupestri delle Alpi. Una sovrapposizione consiste nel fatto che un’incisione rupestre è stata eseguita sopra un’altra eseguita sullo stesso supporto. Quale motivo avrebbe spinto l’incisore preistorico, nonostante l’ampia disponibilità di spazio, a eseguire un’immagine sopra un’altra immagine, se non il fatto che nella concezione arcaica la sovrapposizione è la condivisione di uno spazio comune, cioè una forma di partecipazione delle due incisioni dello spazio archetipico? Ad oggi questa è l’unica ipotesi che possiamo formulare: il supporto sacro è uno spazio nel quale non esiste il prima e il poi, il sopra e il sotto, e dove vale solo un tempo presente che dura per sempre. Questo, a mio avviso, è uno dei paradigmi fondamentali a cui deve attenersi l’Iconografia Preistorica. Se analizziamo due piatti in ceramica, uno di Campo Reatino (Rieti) e l’altro di Marsiliana d’Albegna (Savona), possiamo notare che nella parte centrale dei piatti sono riconoscibili due diverse modalità di rappresentazione del centro (axis mundi), attorno al quale si sviluppa l’azione gestuale. Nel caso di Campo Reatino assistiamo ad una danza circolare eseguita da sei danzatori il cui gesto ctonio è orientato verso il fondo della ciotola, una coppella all’interno della quale è stampigliata una svastica. Al contrario, i quattro antropomorfi adoranti di Marsiliana hanno la parte inferiore del corpo ridotta ad una semplice linea che si stacca dalla coppella al centro del piatto. E’ probabile che con questa soluzione grafica il decoratore del piatto abbia voluto rendere, con una semplice linea retta, l’attimo della fuoriuscita (anodos) della parte inferiore del corpo dei quattro adoranti dalla coppella.
Purtroppo non riusciamo a staccarci dai modelli linguistici, antropologici, cognitivi della nostra cultura e della nostra Weltanschauung, corretta e indirizzata attraverso il corso di migliaia di anni, di prove-ed-errori. E profondamente radicata. È il caso dell’espressione che usi «corredo con il quale il defunto avrebbe affrontato la vita dopo la morte». Se morendo si andava nel non-tempo nel non-spazio, allora anche il corredo cambia completamente di prospettiva: da qualcosa che accompagna il defunto a qualcosa che i vivi comunicano di se stessi (a se stessi, come comunità, come condivisione di credenze): le proprie conoscenze, speranze, visioni, concettualizzazioni, ipotesi. Sanno che non c’è risposta: seppellire il morto e seppellire insieme anche il corredo è lanciare all’universo, a se stessi l’eterna domanda, che a tutt’oggi non ha avuto risposta. Che esista una “vita dopo la morte” la ragione non sa dire: ipotizzarla serve a racquietarci, a consolarci, a farci coraggio, a darci forza per vivere ora (noi che siamo i fortunati che vivono ancora), a batterci colpi sulla spalla dopo le risposte mancate; a soffiarci dal pugno, sconsolati, le quattro mosche che abbiamo racimolato. La pietra, la terra, il fuoco ci rimandano solo l’eco della nostra stessa domanda. E dunque dobbiamo arrangiarci (non dico “rassegnarci”). Senza credenze, senza fedi, senza al-di-là, senza Caronti, Cerberi & C., senza giudici. Può essere rassicurante crearci paesaggi lunari: serve ad allontanarci dall’assillo che ogni giorno al risveglio ci punge; serve ad ingannarci, ad accettare il compromesso. Un cantautore tedesco (Reinhard May) in una canzone del 1983 “Du hast mir schon Fragen gestell” [Mi hai già fatto molte domante] dà al proprio figlio questa risposta:
Dahinter liegt der Quell des Lichts,
Oder das Meer, vielleicht auch nichts,
Vielleicht ein Park mit grünen Bänken,
Doch eh’ nicht jemand wiederkehrt
Und mich eines Bess’ren belehrt,
Möcht ich mir dort den Himmel denken.
Dietro c’è la sorgente della luce
Oppure il mare, forse davvero nulla,
Forse un parco con verdi panchine;
Ma fino a quando qualcuno non tornerà indietro
e non mi darà una risposta migliore
mi piace pensare che là ci sia il cielo.
Un secondo spunto mi vien quando parli della atemporalità e la aspazialità della mentalità primitiva: l’uomo moderni ci è arrivato solo da pochi decenni con la fisica quantistica